Intervista Dottor Franceschi Enrico

Intervista Dottor Franceschi Enrico

Intervista Dottor Franceschi Enrico

La scorsa estate, poco dopo l’ultimo congresso mondiale ASCO (American Society Of Clinical Oncology), abbiamo avuto l’occasione di intervistare il Dottor Franceschi Enrico, Direttore dell’UOC Oncologia del Sistema Nervoso, Ospedale Bellaria, IRCCS Istituto delle Scienze Neurologiche di Bologna. Il Dottor Franceschi è inoltre Coordinatore Nazionale delle linee guida AIOM per le neoplasie cerebrali dal 2021 e autore di più di 140 pubblicazioni in riviste ad elevato impact factor. Ecco a voi quello che ci siamo detti.

Durante il suo percorso di studi cosa l’ha portata ad appassionarsi alla neuro-oncologia?

Prima di affacciarmi all’oncologia nei miei primi anni di università ho passato diversi periodi nell’Istituto di Anatomia umana dell’Università di Bologna, dove uno degli elementi più importante è lo studio del cervello. Poi mi sono appassionato all’oncologia e, quindi, di conseguenza, ho unito le due cose: sia i meccanismi fisiologici del cervello, sia i meccanismi con cui il sistema nervoso aveva delle patologie. È stato questo il passaggio ed è avvenuto abbastanza presto, perché ero ancora studente di medicina.

Mi sembra che alla neuro-oncologia si possa arrivare dalla parte più oncologica o più neurologica e mi interessava osservare questo passaggio tramite l’oncologia.

In realtà io ho fatto l’oncologo per lungo tempo, prima di occuparmi quasi prevalentemente di neoplasie cerebrali. Mi sono occupato di tumore alla mammella, tumore al colon, tumore al polmone, ma sempre con una spiccata preferenza le neoplasie del sistema nervoso. Adesso sono diventato Direttore di un’Unità Operativa Complessa che si occupa di tumori del sistema nervoso e di tumori del testa collo. Quindi, sostanzialmente, questa è stata l’evoluzione della mia carriera.

Nella sua attività da medico ricercatore quanto è importante la ricerca scientifica, ma allo stesso tempo quanto è importante mantenere un occhio anche alla clinica?

Non ci può essere una cosa senza l’altra. L’obiettivo ultimo di qualsiasi ricerca sono i pazienti. Senza l’occhio al paziente la ricerca è solo speculativa e fare ricerca è il miglior modo di prestare assistenza a un paziente. Tra l’altro non puoi garantire la ricerca, se non si parte da uno standard di assistenza molto elevato.
Allo stesso tempo la ricerca è insita nella natura dell’uomo. La ricerca di andare oltre quello che è conosciuto, andare verso qualcosa di nuovo, dare nuove speranze. Andare a capire quali sono i meccanismi con cui le persone si ammalano e soprattutto con cui si può cercare di guarire, o quantomeno di migliorare le nostre conoscenze e di conseguenza qualità e quantità di vita.

Senza sapere cosa accade ai pazienti, senza vedere come i pazienti tollerano i trattamenti, quali sono i problemi che possono emergere, senza sentire anche le loro esperienze la ricerca ha un significato molto relativo.

I pazienti sono al centro. Se noi ci focalizziamo solamente sulla malattia perdiamo la dimensione più grande. Il paziente non è un contenitore di una patologia. In ambito oncologico abbiamo tenuto molto spesso lontani i due aspetti, pazienti e ricerca: negli ultimi anni la ricerca sta dimostrando che non possiamo prendere in considerazione solo le cellule malate, e neanche non sono le cellule malate nel contesto di un organo, e neppure le cellule malate in uno specifico organo in una determinata situazione: le patologie oncoologiche riguardano tutto il microambiente, situazioni ben più ampie. Piano piano stiamo capendo che è tutto un continuum. Tumore e paziente non sono due cose distinte. Come ricercatori non possiamo fare a meno di considerare questo elemento.

Brainy si propone di riferirsi sia ai pazienti sia ai medici, infatti abbiamo indetto alcune borse di studio negli ultimi due anni. Volevo chiederle che consiglio darebbe a un giovane ricercatore oggi in Italia?

Fare più esperienze. Prima di settorializzarsi più esperienze si fanno meglio è. È molto importante avere il più possibile una visione a 360°. Gli esseri viventi sono esseri complessi, ma allo stesso tempo hanno corrispondenze trasversali. Quello che un medico, un ricercatore, apprende in un campo lo può molto spesso trasportare in altri campi.


Le esperienze all’estero possono essere un elemento importante. Non è tanto di per sé l’estero rispetto all’Italia, l’importante è fare esperienze in istituti dove ci sia il desiderio di fare crescere i giovani. Un giovane ricercatore può fare un viaggio anche nell’istituto più avanzato, l’obiettivo, però, deve essere chiaro e andare con un progetto che permetta di crescere. Deve anche avere l’idea se vuole rimanere all’estero o tornare in Italia. Se vuole tornare in Italia, capire cosa vuole riportare da questa esperienza. L’altro elemento è che bisogna avere molta pazienza e soprattutto trovare delle persone che vogliano investire su di loro.

Si è tenuto da poco l’ultimo congresso ASCO dove si sono presentati i risultati dello studio INDIGO e volevo chiederle se ci poteva descrivere un po’ di questa enorme novità.

Finalmente dopo tanti anni abbiamo dei dati su una terapia a bersaglio molecolare efficace nelle neoplasie cerebrali e in un ambito specifico che è quello dei gliomi di basso grado, che sono una patologia, a mio avviso, anche se rara, molto importante. Molto importante per il tipo di pazienti che va a colpire.

Sono pazienti giovani e che hanno una malattia che si chiama glioma di basso grado IDH mutato, che ha di per sé una lunga aspettativa di vita. Ad oggi sappiamo che queste malattie sono molto sensibili ai trattamenti classici, come la radio e la chemioterapia. Ovvio che questi trattamenti non sono innocui, portano con loro una serie di complicanze a breve e a lungo termine che non sono trascurabili, come possibili deficit cognitivi, deficit della fertilità, tossicità d’organo. Sebbene siano molto efficaci e capaci di prolungare l’aspettativa di vita dei pazienti nell’ordine di anni, però sono trattamenti impattanti sui pazienti.

Avere un farmaco come quello che è stato presentato nello studio Indigo, il vorasidenib, in grado di posticipare il più possibile l’inizio di questi trattamenti con uno spettro di effetti collaterali molto limitato è sicuramente un grande passo avanti.

Lo studio è stato uno studio mondiale, randomizzato di fase 3, in cui i pazienti con un glioma di basso grado IDH1-IDH2 mutato con dei criteri che venivano considerati non di alto rischio, cioè pazienti che potevano permettersi di non fare immediatamente un trattamento attivo, ma che comunque necessitavano di una certa attenzione clinica, venivano randomizzati a ricevere o il farmaco sperimentale o il placebo. Questo tipo di farmaco va agire su questo enzima, IDH, che una volta mutato produce un oncometabolita, il 2-idrossiglutarato, in grado di trasformare le cellule della glia in cellule di glioma. L’effetto di questo farmaco è bloccare la creazione di questo enzima e la produzione di questo oncometabolita e il blocco ha un effetto citotossico e citostatico e in certi versi sembra anche essere maturativo, cioè diminuisce la staminalità delle cellule quando vengono trattate con questo farmaco.

Per tornare allo studio i pazienti venivano assegnati a vorasidenib 40 mg o a placebo. I risultati dello studio sono stati davvero molto interessanti. L’obiettivoprincipale dello studio era il tempo alla progressione ed è risultato statisticamente significativo. Ma non è solo statisticamente, che a volte è un po’, come dire, una scusa dietro cui noi ci nascondiamo, è anche clinicamente rilevante. I pazienti che facevano vorasidenib avevano un tempo alla progressione di più di 2 anni, quasi 28 mesi. I pazienti che facevano placebo avevano un tempo alla progressione che era di meno di 1 anno, 11 mesi. Un prolungamento del tempo alla progressione, cioè alla crescita di questi gliomi di basso grado, di 16 mesi circa. L’altro elemento importante, che era un end point secondario, ma considerato comunque rilevante, era il tempo al successivo intervento terapeutico, che nel braccio dei pazienti che hanno ricevuto vorasidenib non era raggiunto, cioè la curva non scendeva mai sotto al 50%. Addirittura rimaniamo sopra l’80% anche dopo i due anni. Per contro, i pazienti che avevano ricevuto placebo avevano necessità di un ulteriore intervento terapeutico dopo circa 18 mesi. Questi sono elementi che sicuramente fanno molto riflettere sull’efficacia di questo approccio.

L’altro elemento molto importante è la tollerabilità di questo tipo di farmaco. Tutti gli eventi avversi sono stati intorno al 20%; ma il massimo che abbiamo avuto sono stato un incremento delle transaminasi nel 5-9%, quindi elemento singolo di tossicità. Il 20% cumulativo è veramente molto basso. E vediamo che il placebo, cioè fare nulla, aveva circa il 10% di eventi avversi seri.

È un significativo cambiamento nell’ambito delle possibilità terapeutiche dei pazienti. Siamo in attesa delle eventuali approvazioni degli enti regolatori americani ed europei e poi, di conseguenza, italiani e delle varie regioni. Però dobbiamo iniziare a ragionare come selezionare i pazienti per i futuri trattamenti: quali pazienti continueremo a trattare con la radio e la chemioterapia perché avranno dei criteri di alto rischio, che noi consideriamo rilevanti? Quali pazienti invece potremo avere un approccio meno interventistico e poi tratteremo con  vorasidenib? Queste sono ssfide che avremo in futuro.

Ciò che noi sappiamo è che questo tipo di farmaco funziona tanto meglio quanto prima viene dato nella storia clinica della malattia, cioè finché la malattia è dipendente dall’oncometabolita, dal 2-idrossiglutarato. Questo perché nel corso della malattia avvengono, naturalmente come in tutte le neoplasie, delle ulteriori alterazioni geniche e epigenetiche che rendono la malattia più resistente o con delle altre vie di uscite rispetto alla sola attività legata alla 2 idrossi glutarato. Ci sono una serie di elementi che una volta che avremo realmente a disposizione il farmaco dovremo studiare per definire quali siano i pazienti devono essere assegnati ai diversi tipi di trattamento, radio chemioterapico o vorasidenib, e quali invece non verranno trattati con terapie oncologiche dopo l’intervento neurochirurgico.

Sto pensando ai pazienti molto giovani con delle resezioni complete o anche sovramarginali, con tumori che magari erano già piccoli, che non prendevano contrasto, che erano oligodendrogliomi.

Questi pazientihanno una serie di criteri di rischio clinici e biologici favorevoli, che probabilmente dopo la chirurgia non necessitano di ulteriori trattamenti e solo possono essere seguiti con il follow up.

C’è poi, una categoria di pazienti a rischio intermedio che potrebbero giovare di voresidenib ed infine ci sono i pazienti che continuano ad essere ad altro rischio, che probabilmente fin da subito dovrebbero fare la radio seguita dalla chemioterapia. Sono tutti elementi che dobbiamo studiare perché questo studio ha creato una nuova era nell’ambito delle neoplasie cerebrali di basso grado.

Quanto è importante l’interdisciplinarietà tra vari specialisti, essendo, mi pare un tumore che deve essere affrontato sotto vari punti di vista?

È essenziale. Non esiste lo specialista che sa tutto. È un messaggio che deve essere passare a tutti i livelli, sia ai giovani, sia ai pazienti, sia ai ricercatori. Quando si tratta di un paziente, che è per definizione un organismo complesso, trovarsi attorno a un tavolo a parlare di tutti i vari aspetti è fondamentale. Ci sono, infatti, aspetti biologici, tante alterazioni molecolari con significati specifici che vanno interpretate; ci sono aspetti neurochirurgici, ad esempio l’entità della resezione che ci dobbiamo aspettare, e i potenziali rischi riabilitativi successivi; ci sono i campi e le nuove tecniche di radioterapia, gli aspetti neuropsicologici, gli aspetti anatomopatologici, gli aspetti legati alle caratteristiche organiche del paziente e le possibili risposte ai farmaci oncologici. Non da ultimo anche gli aspetti di cure palliative precoci. Mettere insieme tutti questi elementi è fondamentale per mettere al centro il paziente e prendersene cura. Altrimenti ognuno rimane nel proprio castello e non ci si parla. La multidisciplinarietà in ambiti di patologie complesse come lo sono le neoplasie cerebrali, che sono tumori rari per lo più, è fondamentale perché permette veramente di delineare il miglior trattamento per ogni paziente.

Come ultima domanda, noi siamo un’associazione e ci chiedevamo quanto queste fossero importante per l’attività del ricercatore e cosa si può fare per voi.

Ho imparato tanto dalla scienza, ma altrettanto dai pazienti, forse più dai pazienti che dalla scienza. L’apporto dei pazienti e delle comunità dei pazienti, dei parenti e dei caregiver per il ricercatore è fondamentale. Non si può prescindere. Ci danno forza per continuare, quando noi come esseri umani siamo stanchi, magari per tanti insuccessi. Loro ci danno la forza e lo stimolo ad andare avanti. E poi ci danno sempre dei punti di vista che magari noi non abbiamo avuto. Parlare e avere feedback da parte di pazienti, amici, caregiver, sostenitori è una ricchezza che è inestimabile. Il mio invito è sempre essere vicini, supportare i medici, dare il loro punto di vista, confrontarsi. A volte così come noi non abbiamo visto certe cose; i pazienti, i parenti, gli amici e le associazioni possono non averne viste altre. Anche in questo caso è sempre necessario il sostegno, il confronto reciproco. Questa, secondo me, è la strada principale. Quella che porta tutti a vincere.