Immunoterapia neoadiuvante nel glioblastoma: un nuovo paradigma?

Il Dott. Giacomo Sferruzza, precedente vincitore del Bando Brainy, riassume per noi un’importante studio recente pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature Medicine.
Il glioblastoma, nonostante gli sforzi della comunità scientifica, rappresenta ancora oggi una delle neoplasie più difficili da trattare, anche per via della sua straordinaria capacità di inibire il sistema immunitario.
Il sistema immunitario dispone infatti di strumenti estremamente potenti per eliminare le cellule sospettate di trasformazione tumorale. Questi strumenti sono talmente potenti che nel corso dell’evoluzione ci siamo dovuti munire di diversi “freni di emergenza”, noti come checkpoint immunitari, per evitare che il sistema immunitario danneggi per errore i tessuti sani. I tumori, tuttavia, riescono a sfruttare questi stessi freni per neutralizzare l’azione del sistema immunitario e proliferare indisturbati.
Studi pionieristici, che sono valsi il Premio Nobel per la Medicina nel 2018 a Tasuku Honjo e James Allison, hanno dimostrato che è possibile disattivare questi freni con dei farmaci che prendono il nome di “inibitori dei checkpoint immunitari”. In questo modo è possibile quindi impedire ai tumori di difendersi dal sistema immunitario. Questa scoperta ha rivoluzionato il trattamento di diversi tumori, tra cui il melanoma. Tuttavia, per motivi non del tutto chiari, questa strategia non ha avuto la stessa efficacia nel glioblastoma.
In uno studio recente pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature Medicine, il gruppo di ricerca australiano coordinato dalla Dott.ssa Georgina V. Long ha ipotizzato che il motivo di questo insuccesso risieda nel momento in cui la terapia viene somministrata. I pazienti con glioblastoma, infatti, vengono solitamente sottoposti a un intervento chirurgico di rimozione del tumore, seguito da un protocollo di radioterapia e chemioterapia. La maggior parte delle terapie sperimentali, inclusi gli inibitori dei checkpoint immunitari, sono stati somministrati durante questa seconda fase o al momento della recidiva. I colleghi australiani hanno invece iniziato a somministrare una combinazione di tre inibitori dei checkpoint come terapia neoadiuvante, ovvero prima dell’intervento chirurgico, cioè in una fase in cui le cellule tumorali potrebbero fare maggiore affidamento sui freni d’emergenza per sfuggire al controllo del sistema immunitario. Il protocollo sperimentale prevedeva inoltre l’uso di un vaccino peptidico personalizzato, somministrato dopo la radioterapia.
Il risultato, supportato da un solido razionale scientifico, è stato sorprendente: il paziente trattato non presentava segni di recidiva dopo 17 mesi nonostante le caratteristiche molecolari sfavorevoli del suo tumore. Benché si tratti di un risultato ancora preliminare e relativo a un singolo caso, esso apre la strada a un nuovo e promettente approccio che sarà ora valutato nel contesto rigoroso di una sperimentazione clinica.
Per approfondire trovate la citazione dello studio e un commento/editoriale che la rivista ha pubblicato in parallelo:
Long at al. 2025 – Neoadjuvant triplet immune checkpoint blockade in newly diagnosed glioblastoma
Ellenbogen and Zadeh 2025 – A new paradigm for immunotherapy in glioblastoma